Con Giuseppe Ferraro, in una scuola di Napoli, alla ricerca dell’identità

Pubblichiamo il ricordo di una mattina speciale, “rubato” ad un post su Facebook del Prof. Giuseppe Ferraro, che il giorno 12 novembre 2016 ha partecipato come apprezzato testimone al terzo percorso “Tra bellezza e abbandono” che ha si sviluppa nell’anno scolastico 2016-17.

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Questa mattina con Emilia Leonetti, Giulio Maggiore, Elena de Gregorio dell’Associazione VIVONAPOLI siamo a stati all’Istituto Leonardo da Vinci di Poggioreale.

Seguo con gioia l’impegno di Emilia ed è stata una gioia ritrovarci tra i ragazzi e le ragazze della scuola. Ci siamo disposti in cerchio, perché ad indagare ciò che è vero di qualcosa bisogna disporsi in cerchio così come Parmenide diceva che la verità è ben circolare. Abbiamo tenuto così il nostro dialogo corale parlando insieme dell’Identità e dell’Appartenenza.

Cosa è mai “identità”? Abbiamo cercato prima di capire la parola di origine latina da “Idem”, che indica “lo stesso”, ma anche “ancora”, “pure”, così come l’avverbio iterativo “identidem” reso celebre da Catullo. Identità non è una parola latina, ma è ricavata dal latino. Sarebbe forse più preciso intendere la derivazione da “Id-entis” ciò che è di un ente, con valenza giuridica, ma poco importa.

Abbiamo invece cercato le espressione che potevano riferirsi e chiarire “identità” ed arrivato subito “io”. Già, ma di chi è l’io che scriviamo sul foglio che lasciamo sul pavimento come sulla nostra lavagna orizzontale. Sono seguite affollandosi tante altre parole che alla fine abbiamo cercato di ordinare, seguendo un percorso di attenzione. E tanta è stata l’attenzione e l’emozione di tutti quanti hanno partecipato.

L’identità è duale. Uno è uno con uno e un altro con un altro. L’identità viene dall’altro, dagli altri che mi riconoscono per quello che poi non sento di essere io stesso o che cerco di rappresentare. Con l’”io” arrivano così le “maschere”, i “comportamenti”, i “luoghi”, la “città”, arrivano i “legami”. Siamo subito partiti dall’identità come certezza dell’io per arrivare presto alla crisi dell’identità e quindi alla sua complessità e “divenire”.

L’identità è un impegno: bisogna diventarla, bisogna diventare quel che si è. L’identità sfugge quando ci si irrigidisce uno stato, in una certezza assoluta, in un gesto convenzionale, in un comportamento che non è proprio quanto è dell’altro al quale ci rivolgiamo. Ho ricordato quel mio Sasà in carcere, quando disse io che sono qui non sono io.

L’identità è duale e ciò che la rende tale è l’intimità. È nei legami veri che siamo anche quel che sentiamo di essere. Perdere l’identità è anche perdere chi si ama, quando si lacera un legame. Ricordo tutti i nomi dei ragazzi, ma è di Vittorio che raccolgo come esempio. L’amico, ci diciamo, è chi ti vuole bene, ti fa sentire te stesso.

L’amico non è chi è uguale a te, ma chi ti fa essere uguale a te stesso. Avere identità significa volere bene, anche quando ci si mette in relazione a se stessi davanti allo specchio, ti vedi come ti senti in te stesso, ci sei quanto rivolgi a te stesso il bene di cui ti rende capace ti vuole bene. Ed è il bene che lega il “dentro” e “fuori” di noi.

Anche nel rapporto con la Città, di questa nostra Città, che non amiamo veramente quando il dentro delle nostre case, ben tenute, non corrisponde alla cura che abbiamo della città fuori, per le strade. È nostra, è intima questa Città ed è l’intimità la forma del bene.

Vittorio, tu hai amico, gli siedi accanto, perché è così, non si scelgono mai le cose se non per legami che permettono di starci accanto in noi stessi con chi sentiamo di voler bene. È così, Vittorio? Tu cosa dici di Francesco e dell’amicizia? Francesco ti fa essere veramente te stesso? Vittorio ha cominciato a parlare e gesticolare, farfugliando, con tale intensità, senza emettere alcuna parola, solo suoni. Ha parlato in una lingua non scritta, voleva dire, cercando le parole che si scompaginava ad ogni articolazione della voce. Ha detto tutto quello che sente e tutti abbiamo “sentito”, perfettamente, quello che non diceva, in una lingua scritta.

Quando parliamo di chi ci è caro la voce disarticola le parole, le smorza, quasi le devia frenando sulla corsia del linguaggio, quasi ad aprirle, investirle di suoni, per lasciar passare la voce dell’anima, che nessun codice linguistico può liberare. È stata una mattinata felice. Siamo stati ognuno come sentiamo, senza remore di circostanza e ruolo.

Emilia, all’inizio, ha detto che i filosofi sono quelli che pensano e che parlano dei sogni. Pensava al sogno di questa Città mentre parlava. È vero, i sogni sono i pensieri che facciamo senza remore. Nel sonno continuiamo a pensare, ma senza barriere, anzi ci diamo delle “logiche costrizioni” per realizzare quel che non ci è permesso da circostanze e imposizioni. I sogni liberano i desideri. Sognare ad occhi aperti, da svegli, è proprio del filosofo che libera il desiderio dalla clandestinità di un’intimità taciuta.

Questa Città è come vorremmo, ed è, nella nostra intimità. I filosofi liberano la Città interiore dalla clandestinità. Così viene anche da ricordare che proprio della filosofia è vedere quel che manca in quel che c’è perché ciò che c’è sia veramente quel che è. Non è difficile capire basta applicarla la sua pratica, dicendo di vedere quel che manca alla mia città perché sia veramente quel che è, nella sua propria intimità. L’identità è fatta di tante voci, ed è il sogno dell’intimità. Su questo fondo del legame del bene si esprime l’identità nostra, ma è un divenire. L’identità si acquista ogni volta con i legami più importanti che sanno liberare il desiderio dell’intimità.

Ringrazio Emilia e “VIVONAPOLI”, di questa mattinata, ringrazio le docenti presenti, il loro sorriso, la loro attenzione, la stessa del dirigente che ci ha accolto con gioia a scuola.

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