Legalità e giustizia: quali speranze per Napoli

La sala principale dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici ha fatto da cornice all’incontro speciale organizzato dall’Associazione nell’ambito del ciclo Perchè Vivoanapoli – dialoghi per chi resta, con Raffaele Cantone, Presidente dell’Autorità Anticorruzione, e Franco Roberti, Procuratore Nazionale Antimafia. Il tema in discussione era particolarmente caldo per la città di Napoli: legalità e giustizia.

Due parole che vengono spesso ricordate nei convegni e nei dibattiti pubblici, ma che sono costrette a fare i conti con una realtà dove la violazione della legge è sistematica e le condizioni di ingiustizia sociale sono la regola. Proprio per questo l’Associazione Vivoanapoli ha voluto organizzare questo incontro, perché – come ha ricordato la Presidente Emilia Leonetti – non può esservi spazio per la cultura là dove non c’è rispetto delle regole su cui si fonda la convivenza civile.

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Questa provocazione è stata lanciata ai due ospiti da Giulio Maggiore, che ha ricordato il paradosso di un sistema economico come quello napoletano che sembra reggersi su un patto non scritto in cui la tolleranza dell’illegalità appare una condizione necessaria per tutelare un precario equilibrio sociale. Si parla spesso di “legalità”, ma la si pratica poco per evitare di mandare in crisi tante situazioni di marginalità economica dove sembra che l’applicazione del diritto potrebbe far crollare il castello di carta su cui si regge il reddito di tante famiglie. La disperazione diventa l’alibi per l’accondiscendenza verso le attività illecite. Come uscire da questo circolo vizioso?

Raffaele Cantone ha confermato la drammaticità di una situazione come quella napoletana in cui le attività illecite o in “nero” hanno svolto per molto il tempo il ruolo di veri e propri ammortizzatori sociali. Per troppo tempo si è tollerato tutto questo ed oggi trovare una via d’uscita è sempre più difficile. Si deve, però, tentare e una soluzione può essere quella di sostenere i comportamenti virtuosi, premiando le imprese che dimostrano di saper lavorare onestamente nel pieno rispetto delle regole: occorre riconoscere a queste realtà il valore del loro impegno, in modo da rendere “conveniente” il rispetto della legge e dell’etica. Per troppo tempo è accaduto il contrario, con corrotti e corruttori a godersi i benefici delle loro malefatte, mentre le imprese più sane erano costrette ad una condizione di isolamento e marginalità.

Sul punto Roberti ha anche sottolineato come occorra recuperare il senso pieno del concetto di “legalità”, che può essere ricondotto a quattro dimensioni interdipendenti: rispetto spontaneo delle regole da parte dei cittadini, condivisione diffusa delle regole e dei valori sottostanti, controllo del rispetto delle regole, coerenza delle regole con i principi della Costituzione. Solo operando congiuntamente su questi quattro livelli, si possono costruire condizioni reali di legalità. Occorre una crescita culturale del paese, ma anche una giustizia che funzioni realmente e un’azione legislativa che coerente con il dettato costituzionale: tutti elementi che sono venuti meno negli ultimi tempi. Nonostante questo, non bisogna arrendersi  alla “disperazione più grande”, quella che si impadronisce della società quando – citando le parole di Corrado Alvaro – sorge il dubbio che “vivere onestamente sia inutile”.

Occorre resistere a questa tentazione, ma per farlo è necessario riconoscere il danno enorme prodotto dalla corruzione, che non è un peccato veniale commesso da qualche “simpatica canaglia”, bensì un reato gravissimo che produce incalcolabili danni economici e morali. La corruzione è ormai l’arma preferita delle mafie, che sempre più spesso la preferiscono alla lupare e alle bombe, perché più fruttuosa e meno rischiosa. In tal senso, è opportuno garantire alle autorità giudiziarie gli idonei strumenti di indagine, comprese le intercettazioni che qualcuno vorrebbe limitare e vincolare, e cercare di porre un rimedio al fenomeno delle prescrizioni sistematiche che garantiscono un’impunità di fatto ad alcune fattispecie di reato.

Il riferimento alla corruzione è stato raccolto da Raffaele Cantone, che è a capo dell’Autorità creata appositamente per contrastare questo vero e proprio cancro sociale ed economico del nostro paese. Il magistrato napoletano – nel sottolineare il carattere drammatico del fenomeno – ha indicato una possibile via d’uscita nella ricerca di una maggiore trasparenza e di una maggiore semplificazione. Oggi le procedure degli appalti sono molto complesse, ma restano troppo opache: si sanzionano i piccoli inadempimenti dovuti a errori materiali, ma restano nascoste le magagne peggiori. Solo riportando tutto alla luce del sole, potranno essere limitati i rischi e le tentazioni connessi a comportamenti illegittimi.

Ma basterà questo per contrastare la camorra? Cosa possiamo rispondere ai giovani che vivono nelle periferie degradate dove i genitori raccomandano i figli per entrare nei ranghi della criminalità organizzata? Lo stato garantisce ricchi programmi di protezione ad assassini criminali che si scoprono all’improvviso “pentiti” ma offre ben poche alternative ai giovani che vorrebbero trovare un lavoro onesto. Queste sono le altre sollecitazioni proposte ai relatori da Diego Guida e da alcuni giovani studenti di Scampia, che hanno alimentato la seconda parte del dibattito.

Roberti ha risposto in maniera decisa, affermando che la camorre occupa gli spazi lasciati liberi dallo Stato. La sconfitta subita dal clan dei Casalesi ha dimostrato che “quando lo Stato fa lo Stato, non ce n’è per nessuno”. Purtroppo, però, questo non sempre avviene. Le mafie sono forti perché sono considerate un’emergenza: in realtà, sono un dato strutturale che esiste dai tempi di Machiavelli, un elemento costitutivo della società. Devono essere combattute sempre, non solo quando commettono crimini clamorosi o in occasione di omicidi seriali. Occorre perseguire con la stessa decisione la camorra con la giacca e la cravatta, che fa patti con i ricchi imprenditori e ingaggia i disperati. Al tempo stesso, è necessario lavorare per dare un contenuto allo spazio sottratto alle mafie: ad esempio, i beni confiscati alla mafia possono essere “investiti” come risorse nell’ambito delle imprese giovanili che devono essere sostenute sul territorio, provando a costruire modelli di sviluppo alternativi a quelli di natura perversa che vivono di illegalità.

Al riguardo, Cantone – già membro della commissione incaricata di elaborare una proposta per la riforma dell’Agenzia incaricata della gestione dei beni confiscati – ha evidenziato come tale proposta sia ancora bloccata in qualche vicolo cieco della burocrazia. Ha, inoltre, ricordato come sia necessario intervenire rapidamente: l’illegalità sta creando un terreno bruciato a Napoli e i giovani sempre più spesso sono costretti ad emigrare per avere qualche opportunità. Occorre agire in fretta e i primi ad assumersi la responsabilità è devono essere proprio i napoletani perché ormai è chiaro che “qui nessuno viene a salvarci”.

Questo richiamo alla responsabilità dei cittadini rappresenta la migliore chiusura dell’incontro perché riporta al centro dell’attenzione il senso dei dialoghi promossi dall’Associazione Vivoanapoli, che hanno proprio l’obiettivo di sollecitare una “reazione” da parte di una città che deve riscoprire il senso dell’indignazione, ma anche la capacità di costruire un processo di cambiamento.

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