La città immobile. Cause, responsabilità, possibilità.

di Marinella Pomarici

Il confronto del 14 marzo con lo storico Paolo Macry e con la Sovrintendente del Teatro San Carlo Rosanna Purchia si è aperto con una considerazione: a Napoli si sconta la mancanza di coesione e di appartenenza. Proprio lo spunto che ha spinto l’Associazione “Vivoanapoli” a promuovere questo ciclo di dialoghi che hanno lo scopo di interrogare e interrogarci  su come promuovere una diversa partecipazione alla vita della città, come essere cittadini attivi in modo da innescare un processo di trasformazione dei comportamenti. Diego Guida, dopo aver presentato i due ospiti, chiede quali siano state le loro aspettative verso la città e quali le maggiori delusioni.

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Paolo Macry con Emilia Leonetti

Paolo Macry, che nei suoi studi si è occupato anche di crollo dello Stato e crisi della politica, racconta di essere andato via da Sulmona, che negli anni ’50 era una solida cittadina di provincia  e di essersi trasferito, per frequentare l’Università, a Milano, dove già vi erano i segni di un incupimento che avrebbe poi portato agli anni di piombo. Per scrivere la tesi viene a Napoli e qui gli viene offerta una borsa di studio, la città in quegli anni era piuttosto vivace ma certo non lo entusiasmava l’idea di restarci: lo sguardo si soffermava più sulla cementificazione dei suoi spazi che sul golfo. Poi invece sono arrivate le esperienze positive e quindi la decisione di restare. La Napoli degli anni ’80 era la città dei viceré ma era anche la città del dibattito culturale e delle grandi mostre. Poi con Tangentopoli la visione positiva si è rotta, la crisi ha comunque  riguardato l’Italia intera.  La lacerazione che si è avuta nel tessuto politico della città e dell’Italia è stata di lunga durata. Poi c’è stata la stagione bassoliniana, contrassegnata da grande conformismo e da una eccessiva pervasività della politica. Troppo stretto infatti è stato in quegli anni il rapporto politica-cultura. Il clima era così appiattito – racconta Macry – che sembrava che l’unico partito di opposizione fosse il Corriere del Mezzogiorno.  Si è persa, così, una grande occasione di rinnovamento con un decadimento culturale e sociale della città che chiama in causa le responsabilità della classe dirigente di quegli anni. Oggi la situazione è diversa grazie soprattutto al ruolo importante svolto dall’associazionismo. Un’analisi articolata che ha sollevato qualche perplessità. In particolare, Emilia Leonetti, pur riconoscendo le colpe di chi ha svolto funzioni amministrative di rilevo, ricorda che tutti abbiamo avuto una responsabilità civile e anche le grandi realizzazioni, rese possibili grazie alla disponibilità di ingenti risorse finanziarie, sono state gestite nell’ambito di gruppi decisionali chiusi che hanno alimentato logiche clientelari.

Macry, riallacciandosi all’osservazione di Emilia Leonetti, osserva che, al di là delle considerazioni sui difetti tipici dei napoletani, non sia, però, corretto parlare di società debole. Occorre evitare generalizzazioni e focalizzare l’attenzione sulle reali responsabilità di chi, nello specifico, ha avuto un ruolo di potere. Ad esempio, ai docenti universitari della sua generazione si può e si deve attribuire la decadenza dell’università . Non hanno saputo reagire alla massificazione e hanno condiviso una serie di pessime riforme, preoccupandosi più dei propri tornaconti personali che non della qualità complessiva del sistema. Ora l’Università sta uscendo dal tunnel perché quella generazione sta andando in pensione. Più che di società debole, afferma, si deve parlare di crisi del sistema Napoli e di un ceto politico ed amministrativo scadente. Se l’amministrazione non ha un’idea di città, non per questo bisogna crocifiggere la società civile.

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Rosanna Purchia con Giulio Baffi

Rosanna Purchia interviene nel dibattito, portando la sua testimonianza personale di “napoletana di ritorno”. Nata ai Miracoli e cresciuta nella sua casa di  Bagnoli, dopo una lunga e stimolante parentesi milanese (ha lavorato al Piccolo per 33 anni), è ritornata  a Napoli per impegnarsi nel rilancio del San Carlo. La Sovrintendente ricorda la sua formazione sul campo anche a Napoli, la  frequentazione di grandi artisti e l’abitudine di guardare al mondo. Giovanissima, trasferendosi a Milano, ha iniziato l’avventura del Piccolo dove molto formativo è stato il lavorare in squadra e dove forte si sentiva il valore dell’istituzione, il valore di essere “al servizio di…”. Inoltre, a Milano si è consolidata la sua abitudine di guardare al mondo con un’apertura culturale verso le esperienze internazionali. Sia Milano che Napoli non sono entrate nella sua vita per caso, ma sono state frutto di una scelta consapevole: due mondi molto diversi, due realtà stimolanti e complesse. A Napoli il problema principale è che si parla molto, si comunica tanto, ma raggiungere un obiettivo è molto faticoso: diamo il meglio solo nell’emergenza.

Uno dei pregi dell’esperienza di Rosanna Purchia – come ricorda Giulio Baffi – è stato proprio quello di avere svolto efficacemente questo ruolo di “staffetta”, costruendo ponti tra le due città, un lavoro prezioso anche perché Milano può rappresentare per Napoli un punto di riferimento. Infatti, mentre a Napoli si smantellava un sistema, a Milano si costruiva l’esperienza del Piccolo. Eppure, la realtà artistica napoletana era costituita da una grande quantità di voci importanti che, pur avendo lasciato segni indelebili, non sono mai riuscite a costruire un sistema: il tutto per gravi responsabilità della politica, del tutto disattenta o incline ad un uso distorto della cultura. Rossana Purchia, lavorando a Milano, ha ben studiato il sistema milanese e ora ha la possibilità di trasferire qualcosa di quel “metodo” a Napoli.

La Sovrintendente sottolinea nuovamente il suo orgoglio di essere napoletana e ci ricorda come guardare al mondo da Milano ha significato anche guardare a Napoli. Fa notare come le espressioni artistiche napoletane sono spesso più amate e conosciute all’esterno della città. Ricorda, ad esempio, come la realtà dei Teatri Uniti e di Toni Servillo sia rimasta per anni legata a Napoli ai circuiti di innovazione e periferici. Solo dopo un suo invito al Piccolo di Milano, con l’opportunità di proporre in scena Goldoni  per due mesi di seguito, Servillo ha avuto l’opportunità, a partire dal 2002, di compiere quel salto di qualità che lo gli ha permesso di girare il mondo, raggiungendo il successo che merita. Da quando è ritornata a Napoli, ha cercato di lavorare con lo stesso spirito di Milano, riuscendo a  portare le produzioni sancarliane in tournée all’estero, in Russia, negli Stati Uniti, in Cina.

Paradossalmente, oggi il San Carlo ha molto più successo all’estero che a Napoli. Qui sembra che si viva nell’indifferenza. C’è anche molta invidia. Per quesata ragione Rossana Purchia concorda con la Leonetti: c’è  una responsabilità della società civile se le cose vanno come vanno. Il San Carlo ha in realtà lavorato in assoluta solitudine e i finanziamenti sono arrivati soprattutto dall’estero. Solo nel 2013 è arrivato un aiuto finanziario dal governo. Inoltre ricorda come anche i giornali invece di fare chiarezza ed informare correttamente: quando il San Carlo è entrato nella bufera, hanno alimentato il fuoco della polemica per amore dello scoop.

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Il tavolo dei relatori

Questa mancanza di attenzione verso i valori della cultura si sposa molto spesso con un’endemica incapacità di “fare”. A tal proposito, Giulio Baffi, rivolgendosi a Paolo Macry, chiede se questa difficoltà della città di portare a termine i tanti progetti avviati, che ha minato ogni fiducia nelle nuove generazioni, possa essere ricondotta a ragioni storiche. Sul punto, però, Paolo Macry invita a guardare al passato con maggiore spirito critico. Non è vero – osserva – che a Napoli sia restato tutto fermo: soprattutto nel periodo dei cosiddetti “viceré” sono state compiute grandi realizzazioni: si è costruita la tangenziale, il Centro direzionale, la metropolitana, una vera e propria ricostruzione à la Haussmann. Anche l’architettura razionalista durante il fascismo ha ottenuto risultati straordinari. Il problema dell’inconcludenza è una caratteristica degli anni più recenti. Perciò, non ha molto senso attribuire le colpe ad una non meglio precisata “società civile”.

Le responsabilità sono ben chiare e vanno attribuite al ceto politico di centro-sinistra che ha governato la città negli ultimi venti anni. Al limite, sarebbe opportuno chiedersi perché la società napoletana abbia fatto determinate scelte, affidandosi per tanto tempo ad una classe dirigente così poco capace: l’elettorato non ha avuto grande lungimiranza. Inoltre, è giusto riconoscere che l’immobilismo del governo della città dipende anche da un apparato amministrativo che blocca ogni possibile iniziativa: un problema molto grave che è stato richiamato anche da Bassolino come causa dei suoi insuccessi.

Il quadro assume tinte ancora più fosche se si ricorda come l’unica opera pubblica significativa che molto lentamente sta compiendosi in città – la metropolitana – sia il frutto di un progetto degli anni settanta, che ha visto negli anni ottanta l’apertura della prima tratta, negli anni novanta l’inaugurazione delle prime le stazioni e solo di recente il completamento di un circuito finalmente esteso. Probabilmente – come ci suggerisce Emilia Leonetti – anche questo dipende dalle stesse ragioni per cui Rossana Purchia è riuscita a fare sistema a Milano e non a Napoli: in questa città, se non si fa parte di gruppi o di “famiglie”, non si riesce a lavorare ed a lavorare con efficacia.

Ma la denuncia dei mali sociali della città non basta. Per Paolo Macry occorre, infatti, fare un passo ulteriore, distinguendo ed aggredendo specifici problemi, risalendo alle criticità dei processi decisionali ed esecutivi per provare a costruire percorsi di cambiamento. In questo può essere importante l’apporto delle associazioni, che possono e devono diventare interlocutori delle istituzioni nei rispettivi ambiti di competenza. Occorre chiedersi, ad esempio, perché, dopo tanti l’area di Bagnoli non è stata bonificata. Quali errori sono stati commessi? Chi ne è stato l’autore? Quali sono le vie di uscita percorribili?

Probabilmente, questo approccio può risultare molto più utile e costruttivo che non continuare ad alimentare polemiche e nostalgie sul passato, che – comunque la si voglia vedere – non ha certo lasciato un’eredità positiva alle nuove generazioni.

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